Quando mi chiedono “a cosa serve la videoarte” io rispondo: a niente. A cosa serve l’arte? A niente, eppure se l’arte non esistesse…(ecc.). La videoarte è “semplicemente” una forma d’arte. Decifra segmenti del mondo, aspetti del vivere, in modo diverso da quello della comunicazione. Ci offre uno sguardo particolare sulle cose. Avvalendosi ovviamente della tecnologia video, o se preferiamo del linguaggio video. Questo linguaggio (talvolta specificamente elettronico, talvolta ibridato coi linguaggi del cinema, del teatro, della pittura…) può insomma aiutarci a capire un po’ meglio, o da punti di vista altri, questioni piccole e grandi del nostro vivere, oppure può rileggere altrimenti il già scritto, il già dipinto, il già creato, in una fase culturale in cui si è coscienti di quanto l’arte di tutti i secoli ha prodotto e di come non se ne possa prescindere. Il video consente una serie di effetti (di “figure di scrittura”) che possono complessificare l’immagine, generare simultaneità e compresenza di piani, mescolare testi e immagini, modificare la temporalità, alterare i colori. I “trucchi” erano noti al cinema fin da Méliès: ma in video sono quasi il regime naturale. Una costante metamorfosi ottenibile in diretta, sia in fase di ripresa che – ancor più – in fase di montaggio. Questa grande versatilità diventa puro esercizio (dilettantesco o virtuosistico) quando la realizzazione non è sostenuta da un’idea, ma può diventare uno strumento straordinario in mano a un artista, o anche a un giovane esordiente ricco di talento. Come accade, del resto, in tutte le arti.Se poi vogliamo uscire dall’ambito ristretto della “videoarte”, il mezzo elettronico offre anche al campo del documentario, dell’autobiografia, della notazione ambientale e sociale, la possibilità di una scrittura audiovisiva diversa: piccolissime telecamere maneggevoli consentono un grado di intimità impensabile o assai difficile per una troupe cinematografica, diventano proprio una penna e un taccuino d’appunti (come profetizzava Alexandre Astruc alla fine degli anni Quaranta), esaltano la nozione di continuità e di durata. La mescolanza poi di questa possibilità con quelle praticate dalla videoarte (insomma, quello che i francesi chiamano “documentario di creazione”) può produrre risultati di grande spessore. Se ne avvantaggia un genere non nuovo ma oggi assai più praticabile, quello della videosaggistica, della possibilità di dar corpo (immagini, suoni) al pensiero, al ragionamento, talvolta alla biografia, al commento critico.Non si dovrebbe, quindi, più parlare di videoarte? Certo, oggi tutto (o quasi) si gira e si monta in digitale, perfino Hollywood ha capito che i racconti non vanno più raccontati – o vanno sovvertiti, rovesciati, ingarbugliati -, il cinema elettronico comincia ad avvalersi di numerosi effetti non solamente spettacolari, anche i telefilm giocano sulla compresenza di varie immagini e sui punti di vista “impossibili”. Eppure…eppure, almeno in Italia, la “videoarte” (a dispetto della cronica sordità di istituzioni grandi e medie e apparati TV e a dispetto della mancanza di finanziamenti) sembra cominciare ora, e quello di “videoarte” è oggi un termine molto usato, molto diffuso (talvolta un po’ a sproposito, ma pazienza), molto apprezzato. In fin dei conti si capisce bene la sua distanza dal cinema e dalla TV. I giovani hanno capito che le serate, le rassegne, gli incontri di videoarte offrono comunque qualche sorpresa per l’occhio e per l’orecchio, che le videoinstallazioni coinvolgono anche altri sensi e chiamano in causa lo spettatore, che nella zona indefinita e spesso negletta della videoarte si annidano la poesia, uno sguardo diversamente politico, una postura “non riconciliata” con l’ordine – il disordine – audiovisivo mondiale, un rigore insomma di ricerca, un’isola di pensiero reale. E, mostrando e insegnando la videoarte, coltivo il desiderio (talvolta esaudito) che giovani realizzatori coscienti di linguaggi altri possano – oggi che con gli strumenti domestici di montaggio la creazione video è davvero accessibile a tutti – reinventare il linguaggio audiovisivo, progettare in modi diversi anche un backstage, un video musicale, il ritratto di un personaggio, una piccola documentazione. L’importante è non essere faziosi: cercare queste isole di diversità ovunque, come dico sempre ai miei studenti. In un libro, in un film, in un documentario (anche i più “puri”, quelli non contaminati dall’estetica dell’effetto), in tutta l’arte…. non stancandosi mai di confrontare, discutere, conoscere, dissentire, appassionarsi. La videoarte non serve a niente? Che ne dite?
Sandra Lischi, Pisa, 28 marzo 2005